Una recensione di Pietro Lacasella
Alto – Rilievo/Voci di montagna
Il tempo è un filtro dalle maglie molto strette. È severo: non per natura, ma per necessità. Non può infatti consegnare alle generazioni future un passato troppo complesso da ricordare, correndo il rischio che quelle, per pigrizia o per disinteresse, lo rifiutino nella sua interezza. Il tempo deve vagliare gli episodi più eclatanti. I più accattivanti. Cucina dei bocconi succulenti per nutrire di storia chi verrà. Nella preparazione di queste selezionatissime pietanze, tuttavia, produce un enorme quantitativo di scarti. A volte miseri e marginali, altre nobili e interessanti, ma proprio per questo troppo ingombranti. Pertanto, al racconto di Mallory e Irvine, che con la loro scomparsa a pochi metri dalla vetta dell’Everest hanno lasciato ai posteri uno dei più grandi punti interrogativi della storia dell’alpinismo, non poteva sovrapporsi la storia di un medico, Theodore Howard Somervell, che, sempre nel 1924, raggiunse insieme a E. F. Norton quota 8580 metri senza l’ausilio dell’ossigeno supplementare. Un record di enorme prestigio considerata la modesta attrezzatura di cui disponevano a quel tempo. È una storia altrettanto avventurosa, raccontata dallo stesso Somervell nel libro “Il mio Everest” e recentemente pubblicata in italiano da MonteRosa edizioni. Le pagine scorrono rapide accompagnandoci attraverso interminabili tempeste, valanghe inaspettate, usanze orientali e convinzioni occidentali. Somervell, forse in modo inconsapevole, offre al lettore una chiara prospettiva dell’alpinismo dell’epoca: da un lato ancorato ai pionieri ottocenteschi, appannaggio della società borghese su cui si riflette ancora nitida l’indole colonialista; dall’altro in fase di evoluzione, pronto ad accogliere nuovi stimoli e a includere nell’esperienza anche l’attenzione per i territori visitati e per le persone che li abitano. Somervell è una farfalla imbrigliata tra i fili troppo elitari della cultura occidentale. Tuttavia, piano piano, riesce a scavare una breccia e nel bozzolo entra una luce nuova: un raggio ancora debole, che tuttavia lascia intravvedere un futuro rinnovato. Oggi, nonostante le rivoluzioni attraversate dal movimento alpinistico, quel bozzolo si deve ancora schiudere del tutto, quindi è necessario sottrarre alla pragmaticità del tempo le storie di chi ha avuto la lungimiranza di scalfire per primo l’involucro.
Alto – Rilievo/Voci di montagna
Il tempo è un filtro dalle maglie molto strette. È severo: non per natura, ma per necessità. Non può infatti consegnare alle generazioni future un passato troppo complesso da ricordare, correndo il rischio che quelle, per pigrizia o per disinteresse, lo rifiutino nella sua interezza. Il tempo deve vagliare gli episodi più eclatanti. I più accattivanti. Cucina dei bocconi succulenti per nutrire di storia chi verrà. Nella preparazione di queste selezionatissime pietanze, tuttavia, produce un enorme quantitativo di scarti. A volte miseri e marginali, altre nobili e interessanti, ma proprio per questo troppo ingombranti. Pertanto, al racconto di Mallory e Irvine, che con la loro scomparsa a pochi metri dalla vetta dell’Everest hanno lasciato ai posteri uno dei più grandi punti interrogativi della storia dell’alpinismo, non poteva sovrapporsi la storia di un medico, Theodore Howard Somervell, che, sempre nel 1924, raggiunse insieme a E. F. Norton quota 8580 metri senza l’ausilio dell’ossigeno supplementare. Un record di enorme prestigio considerata la modesta attrezzatura di cui disponevano a quel tempo. È una storia altrettanto avventurosa, raccontata dallo stesso Somervell nel libro “Il mio Everest” e recentemente pubblicata in italiano da MonteRosa edizioni. Le pagine scorrono rapide accompagnandoci attraverso interminabili tempeste, valanghe inaspettate, usanze orientali e convinzioni occidentali. Somervell, forse in modo inconsapevole, offre al lettore una chiara prospettiva dell’alpinismo dell’epoca: da un lato ancorato ai pionieri ottocenteschi, appannaggio della società borghese su cui si riflette ancora nitida l’indole colonialista; dall’altro in fase di evoluzione, pronto ad accogliere nuovi stimoli e a includere nell’esperienza anche l’attenzione per i territori visitati e per le persone che li abitano. Somervell è una farfalla imbrigliata tra i fili troppo elitari della cultura occidentale. Tuttavia, piano piano, riesce a scavare una breccia e nel bozzolo entra una luce nuova: un raggio ancora debole, che tuttavia lascia intravvedere un futuro rinnovato. Oggi, nonostante le rivoluzioni attraversate dal movimento alpinistico, quel bozzolo si deve ancora schiudere del tutto, quindi è necessario sottrarre alla pragmaticità del tempo le storie di chi ha avuto la lungimiranza di scalfire per primo l’involucro.